martedì 7 luglio 2015

Patrizia Moretti: "io ci sto male, per loro è un mestiere."

Di seguito pubblichiamo la lettera di Patrizia Moretti madre di Federico Aldrovandi:



"Perché rimetto le querele contro Paolo Forlani, Franco Maccari e Carlo Giovanardi
Ho perso Federico che aveva 18 anni la notte del 25 settembre di dieci anni fa per l’azione scellerata di quattro poliziotti che vestivano una divisa dello stato, e forti di quella divisa hanno infierito su mio figlio fino a farlo morire. Non avrebbero mai più dovuto indossarla.
I giudici hanno riconosciuto l’estrema violenza, l’assurda esigenza di “vincere” Federico, e una mancanza di valutazione – da parte di quei quattro agenti – al di fuori da ogni criterio di senso comune, logico, giuridico e umanitario.
Non dovevano più indossare quella divisa: nessuno può indossare una divisa dello stato se pensa che sia giusto o lecito uccidere.  O se pensa che magari non si dovrebbe, ma ogni tanto può succedere, e allora fa lo stesso, il tutto verrà ben coperto. Con la speranza che il sospetto di una morte insensata, inutile e violenta scivoli via fra la rassicurante verità di carte col timbro dello Stato, di fronte alle quali tutti si dovrebbero rassegnare. E poi con quella stessa divisa si continuerà a chiedere il rispetto di quello stesso Stato: che però sarà inevitabilmente più debole e colpevole. Come un padre ubriaco che ha picchiato e ucciso i suoi figli.
Il delitto è stato accertato, le sentenze per omicidio emesse. Invece le divise restano sulle spalle dei condannati fino alla pensione. Fine del discorso.
L’orrore e gli errori, con la morte e dopo la morte di Federico. La mancanza di provvedimenti non guarda al futuro, non protegge i diritti e la vita: non tutela nemmeno l’onestà delle forze dell’ordine.
Alla fine del percorso giudiziario che ha condannato gli agenti tutto ciò ora mi è ben chiaro: ed è il messaggio che voglio continuare a consegnare alla politica e all’amministrazione del mio Paese.
Dopo la morte di Federico, abbiamo dovuto difendere la sua vita vissuta e la sua dignità assurdamente minacciate. Era pazzesco, sembrava il processo contro Federico.
Ho chiesto risposte alla giustizia e la giustizia ha riconosciuto che Federico non doveva morire così.
Il processo è stato per me, mio marito Lino e mio figlio Stefano una fatica atroce, ma era necessario prendervi parte e lottare ad ogni udienza: ci ha sostenuti l’amore per Federico.
Su quel processo e da quel processo in tanti hanno espresso un’opinione. E’ stato un modo per crescere.
Alcuni hanno colto l’occasione per offendere me, Federico e la nostra famiglia. Qualcuno l’ha fatto per quella che ritengo gratuita sciatteria e volgarità, altri per disegni politici volti a negare o a sminuire la responsabilità per la morte di Federico.
Avevo chiesto alla giustizia di tutelarci ancora. In quel momento era l’unica strada, e non me ne pento.
Sono passati due anni dai fatti per cui ho sporto querela. Ci sono state le reazioni pubbliche e anche quelle politiche. Però poi non è cambiato niente.
Ho riflettuto a lungo e ho maturato la decisione di dismettere questa richiesta alle Procure e ai Tribunali: non perché non mi ritenga offesa da chi ha stoltamente proclamato la falsità delle foto di mio figlio sul lettino di obitorio, di chi ha definito mio figlio un “cucciolo di maiale”, o da chi mi ha insultata, diffamata e definita faccia da culo falsa e avvoltoio.
Non dimenticherò mai le offese che mi ha rivolto Paolo Forlani dopo la sentenza della Cassazione: è stati lui, sconosciuto e violento, ad appropriarsi degli ultimi istanti di vita di mio figlio. Le sue offese pubbliche, arroganti e spavalde le ho vissute come lo sputo sprezzante sul corpo di mio figlio. E lo stesso sapore ha ogni applauso dedicato a quei quattro poliziotti. Applausi compiaciuti, applausi alla morte, applausi di morte. Per me non sono nulla di diverso.
Rappresentano un modo di pensare molto diverso dal mio.
Non sarà una sentenza di condanna per diffamazione a fare la differenza nel loro atteggiamento.
Rifiuto di mantenere questo livello basato su bugie e provocazioni per ferirmi ancora e costringermi a rapportarmi con loro. Io ci sto male, per loro – credo di capire – è un mestiere.
Forlani e i suoi colleghi li lascio con le loro offese e i loro applausi, magari ad interrogare ogni tanto quella loro vecchia divisa, quando sarà messa in un cassetto dopo la pensione, sull’onore e la dignità che essa avrebbe preteso.
Un onore che avrebbero minimamente potuto rivendicare se da uomini, cittadini, pubblici ufficiali e servitori dello Stato, coloro che hanno ucciso mio figlio e coloro che li hanno sostenuti avessero raccontato la verità su cosa era successo quella notte, e non invece le menzogne accertate dietro alle quali si sono nascosti prima, durante e dopo il processo, cercando di negare anche l’esistenza di quella mezzora in cui erano stati a contatto con Federico prima dei suoi ultimi respiri.
Da Forlani e dai suoi colleghi avrei voluto in quest’ultimo processo solo la semplice verità, tutta.
Chi ha ucciso Federico sa perfettamente quale strazio sta dando ad una madre, un padre e un fratello privandoli della piena verità dopo avergli strappato il loro figlio e fratello. Nessun onore di indossare la divisa dello stato, nessun onore.
E nessun onore neanche a chi da dieci anni cerca nella morte di mio figlio l’occasione per dire che in fondo andava bene così: i poliziotti non possono aver sbagliato, in fondo deve essere stata colpa di Federico se è morto in quel modo a 18 anni.
Costruite pure su questo le vostre carriere e la vostra visibilità. Dite pure, da oggi in poi, che il mio silenzio è la vostra vittoria. Muscoli, volantini, telecamere, libri, convegni e applausi. Per dire che non c’è stato nessun problema il 25 settembre 2005. E per convincere voi stessi e il vostro pubblico che il problema l’hanno creato solo Federico Aldrovandi e sua madre Patrizia Moretti.
Vi esorto soltanto, da bravi cattolici quali vi dichiarate, a ricordare il quinto comandamento: non uccidere.
Non spenderò più minuti della mia vita per queste persone e per i loro pensieri. Mi voglio sottrarre a questo stillicidio: una fatica soltanto mia che nulla aggiungerebbe utilmente e concretamente a nessuno se non alla loro ansia di visibilità. Trovo stancante anche pronunciare i loro nomi. Inutile commentare le loro dichiarazioni pubbliche.
A dieci anni dalla morte di Federico per il mio ruolo di madre, ma anche per le mie aspirazioni e per la mia attuale visione del mondo, penso che il dedicare anche solo alcuni minuti a persone che disprezzo sia un’imperdonabile perdita di tempo. Non voglio più doverli vedere né ascoltare o parlare di loro.
Perciò ritirerò le querele ancora in corso.
Non lo faccio perché mi è venuta meno la fiducia nella giustizia, ma dieci anni sono troppi, ed è il momento di dire basta.
Non è il perdono, d’altra parte nessuno mi ha mai chiesto scusa, ma prendere atto che per me andare avanti nelle azioni giudiziarie rappresenta soltanto un doloroso e inutile accanimento.
Ritiro le querele perché sono convinta che una sentenza di condanna non potrebbe cambiare persone che  – da quanto capisco – costruiscono la loro carriera sull’aggressività e sul rancore.
Non ci potrà mai essere un dialogo costruttivo, perciò addio.
Questo non significa che verrà meno il mio impegno di cittadina per contribuire a rendere questo paese un po’ più civile, e questo impegno mi vedrà come sempre a fianco dell’associazione degli amici di Federico per l’introduzione del reato di tortura e ogni altra forma di trasparenza e giustizia.
C’è molta strada da fare: confronti, discussioni, leggi giuste. Bisogna affrontare il problema degli abusi in divisa in modo costruttivo.
Le parole e le espressioni contro Federico, contro me e la nostra famiglia le lascio alla valutazione in coscienza di chi ha avuto il coraggio di dirle. E soprattutto alla valutazione di chi se le ricorda. Io ne conservo solo il disprezzo.
Per me l’onore è un’altra cosa.
L’onore appartiene a chi ha cercato di capire, a chi ha ascoltato la coscienza e a chi ha fatto professionalmente il proprio dovere, a chi ha messo il cuore e l’arte oltre quel muro di gomma costruito attorno all’omicidio di Federico, a tutti coloro che gli dedicano un pensiero, un rimpianto, gli mandano un bacio.
Sono queste le persone che ringrazierò sempre, è grazie a loro che Federico è stato restituito al suo onore di figlio, fratello, amico, ragazzo che voleva vivere, e tornare a casa."
Patrizia Moretti

sabato 4 luglio 2015

Processo Uva, sfilano i testi della difesa

Uva era calmo o era agitato mentre era al triage del Pronto Soccorso dell’ospedale di Varese, quella mattina del 18 giugno 2008, giorno in cui morì? Secondo i due carabinieri che lo hanno piantonato tra le 6 e le 8 era molto tranquillo, secondo l’agente di Polizia Locale che era lì con loro a partire dalle 7,30 era agitato, insultava le forze dell’ordine e cercava di alzarsi dalla barella a cui era stato legato (probabilmente mani e piedi) in attesa dell’autorizzazione al trattamento sanitario obbligatorio. Si calmò, ma sarebbe meglio dire che cadde in un sonno profondo, solo dopo che gli venne somministrato un farmaco calmante da parte del personale infermieristico.Piccole contraddizioni nei testi della difesa ma che, in una vicenda così controversa e dibattuta, possono fare la differenza, sempre. Oggi è stato il turno dei testimoni delle difese dei sei poliziotti e del carabiniere imputati di omicidio preterintenzionale, arresto illegale e altri reati inerenti ai fatti avvenuti tra la notte del 17 giugno 2008 in questura e la mattina del 18 in ospedale.Nicola Susco, all’epoca carabiniere in servizio alla Radiomobile come capopattuglia, Era in servizio quel giorno. Ha raccontato di essere stato chiamato in Pronto Soccorso per dare ausilio al brigadiere Righetto che smontava dal turno: «Sono stato a contatto con Giuseppe Uva ma a distanza. Sono arrivato alle 6,45 e l’ho visto tranquillo, era sul lettino. Ad un certo punto mi sono avvicinato perchè si lamentava. Diceva che le cinture erano strette e che gli davano fastidio alle gambe e alle braccia. Non le vedevo perchè c’era una coperta sopra. Polsi e gambe erano sicuramente legate. Chiesi agli infermieri se potevano staccare le cinghie perchè era tranquillo. So che lo hanno fatto ma non ricordo chi». Alla versione di Fusco, l’appuntato Giovanni Noto che era con lui ha aggiunto solo di aver sentito dire a Uva «di non somministrargli medicinali perchè era allergico», ma anche lui l’ha definito tranquillo. L’agente della Locale Mauro Saredi, invece, ricorda che «arrivammo alle 7,15 circa. Vidi Giuseppe Uva e i due carabinieri. Lo ricordo cosciente, disteso sulla barella, molto agitato, aveva l’alito che sapeva di alcol. Diceva parole contro le forze dell’ordine e cercava di alzarsi ma era legato. Un infermiere somministrò un farmaco a Uva che dopo poco si addormentò profondamente. Venne portato a fare una schermografia e poi fu spostato in psichiatria. Dopo due ore dormiva ancora, poi siamo stati mandati via perchè non c’era più bisogno di noi».Tra i testi della difesa c’era anche Silvana Ilacqua, moglie di Nicola Uva, che ha parlato dei suoi rapporti con uno degli imputati, il poliziotto Luigi Empirio che conosceva perchè i figli erano amici e compagni di scuola, e del rapporto con Giuseppe Uva: «Con Giuseppe avevamo buoni rapporti, frequentava casa nostra, ci dormiva anche a volte. Era Molto legato anche a nostro figlio». Invitata a ripercorrere con la memoria il giorno della morte del cognato ha rcordato «ero stata chiamata da Mara, sorella di Nicola. Mi disse che Giuseppe era ricoverato al Ps. Dopo un po’ ricevetti una seconda chiamata in cui mi disse che era morto in psichiatria. Mio marito era in dialisi, venne staccato dalla macchina in anticipo e lo portai all’ospedale. Non ho visto il corpo, sono rimasta nel corridoio dell’obitorio e non ho visto i suoi vestiti se non dentro ad un sacco».Interrogata dalla difesa sui rapporti con l’agente indagato: «Il giorno della morte di Pino mio figlio doveva andare alla festa del figlio di Empirio. Quando andai a riprenderlo parlammo di quello che era successo e lui mi disse che quella notte era lì, gli chiesi perchè non ci chiamò per andare a riprenderlo e lui rispode che non poteva farlo. Disse che era ubriaco e che secondo lui aveva preso della droga». La donna ha anche raccontato delle volte in cui parlò con Empirio e con altri imputati (Dal Bosco, Righetto e Colucci) di quello che avvenne prima della morte di Uva. La donna ha anche confermato di aver saputo dallo stesso cognato e da due amici di Giuseppe (accompagnati in auto il giorno del funerale) che aveva una relazione con la moglie di un carabiniere.Infine hanno testimoniato anche un’infermiera e una operatrice socio sanitaria che conoscevano Immacolata Russo, l’operatrice che disse di aver raccolto la confidenza da Giuseppe Uva in merito ai maltrattamenti in caserma, le quali hanno negato di averne mai sentito parlare dalla donna.Il 7 maggio si svolgerà la prossima udienza del processo durante la quale ci sarà il confronto tra i tre periti che hanno relazionato sul corpo di Giuseppe Uva e sulle cause della sua morte.



venerdì 3 luglio 2015

Michele Ferrulli : assolti i 4 agenti



Michele Ferrulli morto il 30 giugno 2011 dopo un fermo di polizia a Milano in via Varsavia.
Michele è stato immobilizato a terra ammanettato e nonostante la sua richiesta di aiuto i 4 agenti non si sono fermati, sono andati avanti a picchiarlo a manganellate...... NON SIAMO NOI A DIRLO NON C'ERAVAMO... MA C'è UN VIDEO CHE LO DIMOSTRA!!!


IL 19 2012 aprile la procura di milano termina le indagini, i 4 agenti vengono indagati per omicidio colposo derubricando l'omicidio preterintenzionale e dichiarazioni false.
Il 20 luglio 2012 inizia l'udienza preliminare , l'avvocato Anselmo richiede al Gup il cambio d'imputazione da omicidio colposo a omicidio preterintenzionale.
il 17 settembre 2012 il gup accoglie la richiesta dell'avvocato Anselmo i 4 agenti vengono rinviati a giudizio per omicidio preterintenzionale e dichiarazioni false.
il 4 dicembre 2012 inizio' il processo a carico di 4 agenti di polizia, Michele Lucchetti, Francesco Ercoli, Sebastiano Cannizzoe Roberto Stefano Piva.

Il processo di primo grado si è concluso pochi giorni fà con l'assoluzione dei poliziotti. Ma la vicenda giudiziaria è lontana dalla conclusione. La figlia di Michele, Domenica, e i familiari, stanno aspettando la fissazione dell’udienza del secondo grado del processo.

La sentenza di assoluzione, infatti, lascia molti dubbi, sui quali si sono incentrati gli appelli non solo delle parti civili. Anche il pubblico ministero che ha trattato il fascicolo in primo grado, ha depositato un corposo atto, mettendo in luce i molti aspetti della morte di Ferrulli che sono rimasti oscuri. Ad assistere le parti civili nel giudizio di appello ci sarà, oltre a Valentina Finamore, l’avvocato Carlo Federico Grosso, uno dei massimi penalisti italiani.

Di seguito alcune righe ricevute da Domenica,la figlia di michele:

"Francesco Ercoli nn avesse dato uno schiaffo a mio padre sicuramente nn sarebbe successo nulla.
Se i suoi colleghi:
Michele Lucchetti non avesse dato 3/4 pugni in testa a mio padre, se Sebastiano Cannizzo non avesse dato 7/8 colpi, se Roberto Stefano Piva, padre di un figlio non gli si fosse parcheggiato addosso, schiacciandolo. 

Sarebbe tornato a casa.
Qualcuno poteva fermare i suoi colleghi.
Inutile il tentativo di rianimazione.Ormai era troppo tardi.Mio padre nn doveva essere picchiato.
Mio padre sarebbe rientrato a casa.

Eccoli i 4 bravi ragazzi.Talmente bravi educati e rispettosi da essere indagati x omicidio preterintenzionale e dichiarazioni false."